UN ALTRO GIRO
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Martin, un professore di scuola superiore, scopre che i suoi studenti, i suoi coetanei e persino sua moglie lo trovano noioso, apatico, cambiato. Non è sempre stato così: è stato un docente brillante e un compagno appassionato, quando era più giovane, ma ora è come spento. D’accordo con i colleghi e amici Tommy, Nicolaj e Peter, decide allora di cominciare, insieme a loro, a bere regolarmente ogni giorno, per supplire alla carenza di alcol che l’uomo si porta dietro dalla nascita, secondo la teoria del norvegese Finn Skårderud. L’esperimento, che ha anche un’aspirazione scientifica, comincia subito a dare i primi frutti e Martin torna ad essere un insegnante apprezzato e speciale. Ma gli amici rilanciano, aumentando il tasso alcolico e le cose prendono un’altra piega.
Mads Mikkelsen offre una delle sue interpretazioni migliori, se non la migliore in assoluto, con questo ritratto pacato fuori e incendiario dentro di un uomo preso in una crisi di mezza età, quando lo raggiunge la consapevolezza che la gioventù è passata per sempre e che la fine non è più così lontana.
Si spalanca, così, per lui e per il suo gruppo di sodali, la porta dell’angoscia, ma siamo in Danimarca (ce lo ricorda, tra orgoglio e ironia, il canto degli studenti nell’ora di musica), nella patria di Kierkegaard, dove angoscia significa anche e prima di tutto libertà. Ed è proprio la libertà la parola-chiave del film di Vinterberg: di rischiare o di fallire, di ritrovarsi o di perdersi, ma soprattutto di vivere alimentando la fiammella dell’irrazionalità, rifiutando l’ansia e le regole della cosiddetta società civile, per rimettere in discussione le cose e non obbedire senza scegliere.
Provocatorio, ma affatto superficiale, Un altro giro è un film che celebra la sete di vita e indica una strada possibile, mediamente alterata, senza per questo negare le conseguenze nefaste dell’abuso di alcolici. Vinterberg parla dunque, prima di tutto, alla propria gente, bloccata in una contraddizione perpetua tra retorica puritana e consumo elevato, ma fornisce anche un più generale invito a scegliere come vivere, ad assumersene la responsabilità, nel bene o nel male.
Il risultato è un film libero anche nella forma e nell’andamento, in cui un pool di attori in stato di grazia collettivo dà vita ad una serie di scene tra Ferreri e Cassavetes, per lasciare l’assolo finale a Mikkelsen e ad un memorabile inno del corpo liberato