Trifole – Le radici dimenticate
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Dalia è una ragazza londinese in difficoltà, spedita dalla madre italiana in un paesino nelle Langhe a prendersi cura del nonno Igor. La vita rurale non è facile da apprendere, ma piano piano la ragazza si apre alla vita, alla natura e a un rapporto con il nonno cercatore di tartufi sempre migliore. La demenza senile e la notifica di sfratto incombono, resta poco tempo per scovare in quella terra fertile il tartufo della salvezza, così Igor sceglie di tramandare i segreti da trifolao a sua nipote, con la speranza di poter salvare la casa.
Una storia semplice di riscoperta dei valori della vita e insieme un’immersione profonda nella natura.
È il poetico e colorato Trifole – Le radici dimenticate di Gabriele Fabbro con Umberto Orsini nei panni del nonno, Margherita Buy in quelli di sua figlia e Ydalie Turk in quelli della nipote londinese, che sta passando un momento difficile della propria vita e viene spedita dal nonno in (mutuo) soccorso. Imparerà a decostruire tutto quello che sapeva, adattarsi al tempo lento e ai colori speciali delle Langhe, ma anche a scovare tartufi nella terra, specialità di suo nonno da sempre.
La ricerca dei tartufi nel film è palese metafora della ricerca della felicità, tanto più preziosa quanto più difficile da trovare, proprio come il tartufo d’Alba detto “trifola” in dialetto piemontese. Scritto insieme all’attrice protagonista Ydalie Turk, vanta nelle location spettacolari, nella fotografia e nel sonoro i suoi punti forti. Impossibile non restare magneticamente attratti da quei paesaggi da fiaba, non innamorarsi dei suoni e delle meraviglie delle Langhe. Colpisce anche il progressivo cambio di tono del film, per la prima metà fondamentalmente molto da favola, salvo trasformarsi presto in una fiaba nera. Intanto perché il nonno sta male, non solo a livello di salute (mentale, soprattutto), ma anche di economia: una trifola di notevoli dimensioni potrebbe salvarlo dalla condizione economica critica in cui verte. La ricerca del tartufo perfetto diventa allora per la nipote una sorta di ossessione, specie quando – per un evento clou che non sveleremo – si troverà suo malgrado a confrontarsi con il mondo – in questo film, spietato – del commercio dei tartufi, fatto di aste e competizione ai massimi livelli, date le cifre esorbitanti. Sorprende trovare volti noti come Enzo Iachetti e Caterina Balivo come battitori d’asta, in una parte del film fortemente ancorata alla realtà, di stile a tratti documentaristico, come a dire che la favola è ormai altrove.
La regia di Fabbro sa sorprendere, osa alcuni movimenti inaspettati, propone la soggettiva di un cane (Birba, esperto cercatore di tartufi) e mostra tutta l’intenzione di voler celebrare le Langhe e le loro storie. Non a caso il film è dedicato a tutte le persone delle Langhe che “hanno condiviso la loro storia”. Una storia davvero unica da una parte – di ricerca dei tartufi si occupa poco e niente il nostro cinema -, dall’altra già vista e con trovate di sceneggiatura non propriamente originali. Sa tuttavia lasciare il segno, mostra uno stile e una potenza visiva che restano impressi e sul finale mescola amarezza e incanto, mostrando al pubblico ciò che favolisticamente poteva essere e ciò che amaramente è stato, sottolineando come il calore della ritrovata unione familiare batta inevitabilmente il più pregiato dei tartufi.