Smetto quando voglio – Masterclass
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La banda dei ricercatori è tornata: l’associazione a delinquere “con il più alto tasso di cultura di sempre” di Smetto quando voglio decide di ricostituirsi quando una poliziotta offre al capo, Pietro Zinni, uno sconto di pena e a tutto il gruppo la ripulitura della fedina penale, a patto che aiutino le forze dell’ordine a vincere la battaglia contro le smart drug. Così questi laureati costretti a campare di espedienti in un’Italia che non sa che farsene della loro cultura vanno a recuperare un paio di cervelli in fuga e lavorano insieme per stanare i creatori delle nuove droghe fatte con molecole non ancora illegali. Pietro però non può rivelare nulla del suo nuovo incarico alla compagna Giulia, incinta del loro primo figlio, ed è costretto ad inventare con lei bugie sempre più colorite.
Se il cinema è un’industria di prototipi che ogni tanto si declina in franchising, è raro, anzi rarissimo, che il secondo film di una saga, breve o lunga che sia, si mantenga all’altezza del suo predecessore, tanto più se quel primo film non era stato concepito come l’incipt di un racconto più lungo. Ma Sibilia tiene botta, ha girato due sequel contemporaneamente, e ha proseguito sulla strada della sua particolare ispirazione artistica che mescola commedia all’italiana, con I soliti ignoti a fargli da faro guida, all’action comedy statunitense in stile Ocean’s Eleven. Il tratto comune dei due modelli aspirazionali è la forte caratterizzazione dei personaggi, e in Smetto quando voglio – Masterclass anche Sibilia fa leva sia su quanto già sappiamo di ciascun componente della banda, che sul nostro immaginario cinematografico a cavallo fra tradizione e importazione.
La saga di Smetto quando voglio rappresenta una sorta di cartina di tornasole dello stato di salute della commedia italiana contemporanea, un breviario di ciò che si deve e di ciò non si può più fare (come hanno dimostrato i flop di molti cinepanettoni recenti).
Sibilia (di)mostra che si può avere fiducia nell’intelligenza degli spettatori, abituati dalle sitcom americane a gestire un fuoco di fila di battute sparate a raffica senza soffermarsi sull’effetto comico ottenuto, e prova che si può fare una commedia moderna rimanendo ancorati alla realtà di fondo, anche tragica come quella della disoccupazione italiana, senza dover per forza tracimare nel grottesco o nel surreale. Che si può, e si deve, fornire allo spettatore una spiegazione, ancorché fantasiosa, delle implausibilità della trama, invece che ignorarle sperando nella clemenza (o disattenzione) di chi guarda. Che una commedia riuscita è innanzitutto scritta bene non solo a livello di gag e battute ma anche di costruzione narrativa, e che i personaggi non devono tradire la natura che è stata loro assegnata dal copione e dagli attori che li interpretano.
Sibilia, con l’ottima Francesca Manieri (già coautrice di Veloce come il vento) e Luigi Di Capua, tiene saldo il timone della storia e la radica profondamente nella contemporaneità romana, facendo riferimento ad una città riconoscibile ma non scontata. Le new entry all’interno della banda – il napoletano Giampaolo Morelli in una parodia spassosa di Alessandro Siani e il siciliano Rosario Lisma avvocato vaticanista – funzionano invece perché allargano lo spettro romanocentrico del cast, e il palestrato Marco Bonini è opportunamente autoironico. Molto meno riusciti i personaggi interpretati da Greta Scarano (l’eccessivamente giovane e informale agente di polizia che conferisce l’incarico alla banda) e Luigi Lo Cascio, la cui apparizione sorpresa nel film è purtroppo preannunciata da un trailer-spoiler che “brucia” alcune delle migliori gag del film. Davvero punitivo infine il ruolo di Giulia che costringe Valeria Solarino a recitare su una nota sola, quella della moglie rompiballe e ottusa.
Ma nel complesso Smetto quando voglio – Masterclass è un ottimo “secondo film” ricco di idee di cinema (seppur mutuate dall’estero), con una sua cifra stilistica riconoscibile, un look acido e psichedelico adeguato al prodotto centrale della storia, pieno di inside joke e gag visive (vedi la t-shirt di Edoardo Leo con la faccia di Sid Vicious), di inquadrature che strizzano l’occhio al fumetto e musiche che funzionano per commento (quella di apertura che chiede: “Vuoi essere un leader o un gregario?”) o per contrasto (le note del Flauto magico sull’incidente d’auto), un ritmo funky del tutto insolito nel nostro cinema melodico, e last but not least un paio di scene d’azione che non ti aspetteresti in una commedia italiana.
In Sydney Sibilia c’è un’esuberanza alla John Landis (non a caso si citano i Blues Brothers) che gli fa perdonare la bulimia narrativa e certe ingenuità registiche. Se Masterclass non ha l’effetto sorpresa del suo predecessore, non dà nemmeno l’idea di spremere un limone oltre il suo potenziale perché è strutturato sulla lunghezza come la (buona) serialità televisiva, che prevede linee narrative brevi ma anche sviluppi a distanza. I suoi personaggi si informano sulla free press Metro e si incontrano nel cantiere mai finito della metropolitana, sono circondati dalla cialtroneria e dall’approssimazione, superati a destra e a sinistra dai raccomandati e dagli insabbiatori, ma la loro “caratura morale” in qualche modo sopravvive. E forse sono proprio loro l’unica cosmogonia supereroica credibile nella Terra dei Cachi.