Rogue One: A Star Wars Story
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“Si! Può! Fare!”, come gridava Gene Wilder in Frankenstein Junior.
Si può fare un film di Star Wars e non farne la vetrina di modernariato hipster di J.J. Abrams; si può fare di dare vita, personalità e “nuova carne” – per dirla con Cronenberg – a quelli che parevano essere destinati a rimanere inerti action figures nelle mani di questo o quel burattinaio. Action figures, o come si chiamavano una volta “pupazzetti”: come quello di uno storm trooper che, guarda un po’, Gareth Edwards piazza furbetto in una delle scene iniziali di Rogue One; forse proprio apposta, forse per dire “hei, guardate, quelli sono giocattoli, i miei invece sono personaggi veri.”
Se sono veri, i personaggi di Rogue One, se il film è il più divertente e coinvolgente della saga da quando nel 1983 Il ritorno dello Jedi sembrava aver messo la parola FINE definitiva alle storie create da George Lucas, è perché quello di Edwards è un Guerre Stellari apocrifo, meticcio, perfino un po’ eretico: e per questo rivoluzionario, proprio come il film di Mel Brooks. E, come tale, dotato di una carica eversiva stimolante e irrequieta; capace di indicare le forme nuove e futuribili di ciò che è stato.
Poi, intendiamoci: non è che Rogue One suoni come una bestemmia per gli oltranzisti del Culto di Star Wars, anzi. Alla fine le icone ci sono pure: ma vengono rispettate con più leggerezza, e considerate da angolazioni nuove e più ampie, anziché venir venerate con una devozione tanto cieca da diventare oscurantista.
Così, i personaggi che contano in Rogue One non sono di certo Darth Vader (che pure, a distanza di quasi quarant’anni, e con un look che questa età la denuncia tutta tutta, rimane una delle figure più carismatiche di quell’universo), né tantomeno il governatore Tarkin ricreato dalla CGI, o la giovane Leia del finale. Non parliamo poi dell’apparizione fugacissima di C-3PO e R2-D2, che francamente Edwards si e ci poteva risparmiare.
No, i personaggi che contano in Rogue One sono quelli che nell’universo di Star Wars non avevamo mai visto, quelli che erano rimasti nelle pieghe della Storia, pur avendo contribuito a farla. Personaggi minori, che bello: sporchi, imperfetti, sbilenchi e soprattutto – vivaddio – irregolari.
Irregolari e sbilenchi, spuri: come un film che parte inquinando il tema di John Williams senza permettere di non riconoscerlo, che invece della familiare carrellata verticale a mostrare questa o quell’astronave, sorprende con una sterzata diagonale e rivelando invece gli anelli di un pianeta.
Alle radici western volute da Lucas, Edwards sostituisce quelle del war movie. E agli eroi più o meno solitari, una (mezza) sporca dozzina di personaggi quasi tutti azzeccati (anche nelle scelte di casting, anche se Diego Luna si spiega poco) destinati a diventare una squadra, il nucleo di base di un plotone destinato alla più classica delle missioni impossibili e suicide, come negli Eroi di Telemark, come in Dove osano le aquile, come nei Cannoni di Navarone.
Funziona la Jyn che ha gli occhioni e il broncio intrigante e vagamente prognatico di Felicity Jones, funziona il pilota dell’Impero (ma disertore) di Riz Ahmed, funzionano soprattutto la coppia Cirruth & Baze (il primo una specie di versione orientale e wannabe-jedi del Rutger Hauer di Furia cieca, il secondo una nerburuta ma affettuosa spalla che pare uscita da un cartone giapponese degli anni Ottanta) e il nuovo droide K2: anche lui, come chi l’ha preceduto, spesso col ruolo di alleggerimento comico, ma dotato di un sarcasmo molto contemporaneo.
Funziona, molto bene, tutta la prima parte, la costruzione della storia e l’assemblaggio della squadra di Rogue One: d’altronde, è dai tempi di Monsters che Edwards ha dimostrato di saperci fare con le situazioni più intime. Ma non per questo, in quella prima fase, manca lo spettacolo e la grandiosità, con la distruzione di una città di chiaro stampo medio-orientale come test della Morte Nera che fa un po’ impressione nei giorni della caduta definitiva di Aleppo.
Quando poi si parte per la missione suicida, e quando soprattutto arrivano le immancabili truppe dell’Alleanza Ribelle e dell’Impero, a colpi di caccia, laser, ammiragli, Destroyer e via dicendo, le cose si fanno un po’ più stanche: perché alla fine quel tipo di battaglie, in Star Wars, sono sempre uguali. Per quanto, va detto, Rogue One proponga anche scontri di terra in stile Sbarco in Normandia, nel corso dei quali appaiono anche i leggendari AT-AT, che sono i miei mezzi preferiti della saga di Star Wars.
Certo, la sceneggiatura di Rogue One poteva esser meglio (a cominciare dai dialoghi, legnosi e un po’ pedanti) e dentro la storia Edwards ha messo tanto, pure troppo. Ma nel mondo sempre più incasinato di oggi, o sei un Eastwood, capace di distillare la forma e la storia più semplice e cristallina, e di avere sempre chiarissimo in testa dove sei, cosa stai facendo, e quali sono i punti cardinali etico-morali da perseguire, oppure – come in questo caso – abbracci il caos affidandoti all’entropia, rappresentando Bene e Male come blocchi nemmeno troppo monolitici, mettendo in scena – soprattutto “a sinistra” – una ben nota frammentazione settaria che è sempre garanzia d’immobilismo, e lasciando ai rogues di turno – un po’ furfanti mercenari, un po’ teneri idealisti – il compito di fare il lavoro sporco e spianare la strada a chi verrà dopo, andando incontro a un destino che è – chiaramente – inevitabile.
Dopo, quello che è venuto, lo sappiamo tutti. Dopo, ieri, come oggi, come Rogue One, come domani, è tutta questione di speranza: di padri e di figli o figlie; di abissi sopra i quali ti batti, rimani appeso, ti aggrappi alla vita; di Forza, che sia sempre con noi e che, per una volta, ce la mandi buona.