Lo Schiaccianoci e i Quattro Regni
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Come ogni vigilia di Natale, la famiglia Stahlbaum si riunisce nel grande salone di casa Drosselmeyer per fare festa. Ma è una vigilia triste per Clara e i suoi fratelli, perché la loro mamma, Marie, è morta da poco. Prima di avviarsi alla serata, il padre consegna i regali che la moglie ha lasciato loro: è così che Clara riceve in dono uno strano scrigno, chiuso a chiave. Ed è cercando la chiave, rubata da un topo, che si ritroverà in un paese magico e, con l’aiuto dello Schiaccianoci Phillip, dovrà combattere per riportare l’armonia tra i quattro regni che lo compongono.
A contenere entrambe le forze è il personaggio di Clara, che fa la sua comparsa per la prima volta in questa riscrittura della favola originale, quasi un suo sequel; ma, più in generale, è il film nel suo complesso a catturare anche perché costruito come un ingranaggio, un percorso attraverso ambienti diversi ma ugualmente fedeli, visivamente, al tema del movimento meccanico, che sia quello cartaceo del pop-up o quello degli oggetti a molla.
Di tutte le principesse o recenti eroine dei film Disney, Clara richiama alla mente più di tutte l’Alice di Tim Burton, giovane condottiera alle prese con creature dalle fogge e dalle dimensioni carnevalesche, ma dietro il mistero della chiave e gli ingranaggi dell’orologio c’è anche il viaggio nel meraviglioso cinema delle origini di Hugo Cabret, ci sono suggestioni visive provengono dalle Cronache di Narnia e altre, fortissime, dal Mago di Oz. Eppure non è un citazionismo ingombrante, quello de Lo Schiacchianoci e i Quattro Regni, ma un modo di inserirsi volontariamente dentro un certo immaginario, classico ma in movimento: un repertorio che, con l’aggiunta del giusto peso in più, può sortire nuove magie filmiche.