LA TERRA DEI FIGLI
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Un padre e un figlio abitano una palafitta sul lago, dopo che una catastrofe non meglio specificata ha cambiato il corso degli eventi e condannato i pochi sopravvissuti ad arrangiarsi come possibile, senza curarsi troppo del prossimo. Il collasso della società ha portato violenza e solitudine, oltre a rendere superfluo il leggere e scrivere per chi in questo mondo ci è nato. Quando il figlio vuole scoprire cosa il padre ha scritto nel suo diario, deve imbarcarsi in un viaggio disperato alla ricerca di qualcuno che possa aiutarlo.
Romanzo di formazione, parabola angosciante, adattamento di pregio di un’opera rilevante del nostro contemporaneo. Ma non solo: La terra dei figli è anche la voglia di allargare lo sguardo e le prospettive di un cinema italiano che di rado racconta la fine del mondo.
Claudio Cupellini, già regista di Una vita tranquilla, ci prova con uno stile austero, immaginando un territorio nazionale post-apocalittico che finisce per ricollegarsi alle nostre radici rurali. Ad attraversarlo è un figlio che non sa leggere la parola del padre, simbolo di una generazione senza guida che ha ereditato un mondo cupo e spietato.
Il materiale viene dall’omonima graphic novel di Gipi, snellita da Cupellini ma mantenuta nello spirito e nella medesima carica allegorica. Quella di un universo in cui non ci si può fidare di nessuno, in cui ogni scambio si fa transazione. Sono pochi gli incontri fatti dal protagonista – il giovane rapper Leon de la Vallée – ma ognuno necessario ad alimentare il pessimismo di fondo che governa la storia, e a scandire le tappe di un viaggio che certo rimane, inevitabilmente e forse lodevolmente monocorde.
Non si tratta di un film facile da sopportare, anche se il pubblico sarà ben abituato alle leggi che governano il genere del post-apocalittico. Ma se la distopia è ormai linguaggio corrente, trovarsela in casa è sorprendente e stimolante. La terra dei figli individua questo stralcio di futuro alternativo nella zona tra la pianura padana e il delta del Po, con i suoi luoghi deserti in cui perfino i fili d’erba e gli specchi d’acqua sembrano aver smesso di muoversi quando lo ha fatto la civiltà.