DIO È DONNA E SI CHIAMA PETRUNYA
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Petrunija è laureata in storia, ha 32 anni, vive nella cittadina macedone di Štip e non ha un’occupazione. Rientrando verso casa dopo un colloquio di lavoro andato male, si ferma ad assistere a una cerimonia ortodossa per le strade. Il rituale prevede che il prete getti una piccola croce nel fiume e che gli uomini si precipitino a recuperarla. Petrunija, vicina alla riva, vede che nessuno raggiunge l’oggetto sacro e si tuffa a recuperarlo. Ne nasce una rissa per strapparle la croce di mano e, più tardi, la giovane è portata al posto di polizia per essere interrogata su un gesto che è stato filmato e il video è diventato popolare in internet, attirando l’attenzione della giornalista di una televisione nazionale.
Dio è donna e si chiama Petrunya è il quinto lungometraggio della macedone Teona Strugar Mitevska, autrice molto amata dalla Berlinale, che negli anni ha presentato lì quasi tutti i suoi lavori.
La regista è conosciuta nell’ambiente dei festival per How I Killed a Saint, I am from Titov Veles e The Woman Who Brushed Off Her Tears. Questo è il suo lavoro migliore e più coeso, il dramma di una donna sovrappeso che si scontra con il maschilismo ancora diffuso. Prima il colloquio con il proprietario di una fabbrica tessile che non la considera adatta e la offende in più modi, poi l’episodio al centro della vicenda con le sue conseguenze.
La protagonista è invitata ripetutamente a riconsegnare la croce recuperata dalle acque e accusata di averla “rubata” in quanto donna. Portata nella stazione di polizia, e trattenuta pur senza essere arrestata, trova ogni volta l’argomento giusto per rifiutarsi. Petrunija ha buon gioco anche perché si trova in una terra di mezzo tra le leggi della Chiesa e quelle dello Stato, tra le regole e le tradizioni. Contro di lei c’è anche la forza del branco, il gruppo, dal quale emergono solo pochi volti, che aveva subito lo smacco nel fiume e cerca di rifarsi aggredendo la giovane.
La regista, insieme alla sceneggiatrice Elma Tataragic, sferra un duro e dichiarato attacco al maschilismo della società, alle abitudini più che alle usanze. Le autrici usano molta ironia, ma evitano di cadere nello stereotipo del grottesco e del tragicomico balcanico, riuscendo a restituire un mondo che sembra fermo e ripiegato su sé stesso.
Alla protagonista non manca nulla se non un lavoro, come sottolineano anche i suoi genitori, e la sua laurea risulta poco utile in quella città. Dalla parte dell’accusata si schiera decisamente anche la reporter (interpretata da Labina Mitevska, sorella della regista e attrice di Prima della pioggia e altri film), che prende sempre più coraggio per contrastare la situazione.