Baby Boss
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Tim Templeton è un bambino felice: ha sette anni e mezzo, i genitori lo adorano, ed è dotato di una fervida immaginazione che gli permette di vivere ogni situazione come un’eccitante avventura. Almeno finché non arriva in casa il nuovo fratellino, che istantaneamente monopolizza le attenzioni e l’affetto dei genitori lasciando Tim da solo a domandarsi come sia potuto succedere che il neonato sia diventato il boss in casa sua. Nello sguardo di Tim, Baby Boss è infatti un piccolo dittatore, un adulto travestito da bebè con un’agenda nascosta della quale i loro genitori sono all’oscuro. Sarà lo stesso Baby Boss a rivelare i suoi piani a Tim perché, oltre ad andare in giro in giacca, cravatta e ventiquattrore come un dirigente aziendale, è un neonato parlante, la cui missione è contrapporsi al trend che sta rubando l’attenzione dei potenziali genitori per dirottarla verso altre creature irresistibili: i cuccioli di cane.
La Dreamworks si mette in diretta competizione con la Pixar nel creare una storia che ricorda da vicino quella di Inside Out, sia perché affronta le paure dei bambini (non solo quella di essere spodestati da un fratellino o sorellina, centrale nel cinema dell’infanzia da Incompreso a Il piccolo Nicolas, ma anche la paura di volare, di togliere le rotelline alla bicicletta, o che i genitori, una volta affidati i figli ad una babysitter, non tornino più a riprenderli), sia perché sposa completamente il punto di vista del protagonista, che vede (e modifica) la realtà in base ai propri sentimenti, con l’aiuto di quella fervida immaginazione della quale siamo stati informati fin dalle prime scene.
Con la differenza che le sequenze in cui Tim trasforma la realtà in avventura sono graficamente distinte da quelle che raccontano il suo presente, e dunque risulta difficile accorgersi che anche l’arrivo di Baby Boss, e la natura del frugoletto, siano distorte dalla fantasia di un bambino spaventato dalla rivoluzione nel suo assetto domestico, che toglie la centralità e il privilegio dell’onnipotenza infantile concessi al primogenito. La sceneggiatura di Michael McCullers, già autore del Saturday Night Live e pirotecnico ideatore del secondo e terzo film della saga di Austin Powers, è un fuoco di fila di battute e situazioni comiche che non dimenticano di sviluppare il tema portante: un inno alla fratellanza che è il contraltare maschile a quello alla sorellanza innalzato da Frozen.
E se Baby Boss non ha la grazia ispirata di Inside Out o di Frozen (perché la Dreamworks non è ancora la Pixar o la Disney) mostra comunque coraggio e originalità nel creare un racconto non scontato affidato a un “narratore inaffidabile”. E la regia di Tom McGrath, che ha diretto tutta la saga di Madagascar, si muove velocissima e crea scene d’azione che hanno la qualità liberatoria della fantasia a briglia sciolta di Tim.