ARMAGEDDON TIME – IL TEMPO DELL’APOCALISSE
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All’alba degli anni ottanta, con la presidenza Reagan che si avvicina assieme alle prospettive di fine del mondo, il piccolo Paul non ha altre preoccupazioni che tormentare il professore in classe e stringere amicizia con il ripetente dell’ultimo banco, Johnny. I due testano i limiti della disciplina nell’errata convinzione che la madre di Paul sia la preside della scuola, mentre la donna, assieme al marito Irving e ai nonni, è solo preoccupata per il futuro del figlio che sogna di diventare un artista famoso a dispetto dei desideri più convenzionali e rispettabili della famiglia.
Si è perso nella giungla, James Gray, e poi si è spinto oltre la luna. Ma la meta ultima è sempre il ritorno a casa, al passato, al Queens e alla famiglia.
Con Civiltà perduta e Ad astra si è dedicato per qualche anno a un cinema più avventuroso nella forma e nello spazio, ma Armageddon Time di colpo restringe il campo a quei claustrofobici bozzetti domestici come Two Lovers o gli iniziali Little Odessa e The Yards. Storie che hanno reso Gray il regista americano più importante della sua generazione assieme a P.T. Anderson, e che come per tutti i grandi autori ruotano attorno agli stessi temi: le radici lontane di famiglie emigrate dall’est-Europa e il trauma inter-generazionale tra padri e figli.
Stavolta Gray aggiunge specificità autobiografica a un film-confessione su un adolescente che non si rende conto del proprio privilegio. Tutti attorno a lui vorrebbero fargli capire quanto sia difficile la vita, nel passato come nel presente. Johnny, afroamericano senza i genitori, lo fa discretamente, ripetendo che “it don’t matter” mentre usa la rimessa della famiglia Graff come alloggio e continua a pagare per gli errori di Paul. Esther e Irving lo fanno con crescente frustrazione, cercando di avviare il ragazzo a essere qualcuno che conta, “molto migliore” del suo papà. Ma l’unico che sembra avere un effetto è il nonno Aaron di Anthony Hopkins (in un altro grande ruolo patriarcale a un anno di distanza da The Father) che offre una prospettiva storica, e racconta di ebrei ucraini in fuga, di prevaricazioni, e di un arrivo in America attraverso Liverpool.
Quello di Paul (catturato alla perfezione dalla cocciutaggine leggera del giovane Banks Repeta) sembra a volte un istinto autodistruttivo, un rifiuto perenne della propria realtà. È una caratteristica che rende Armageddon Time un’opera respingente, che non invita lo sguardo partecipe dello spettatore, come in Licorice pizza di Anderson, e rompe i codici del “coming of age” tradizionale.