Jackie
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L’approccio di Pablo Larraín a Jacqueline Kennedy non è quello di un biografo. Non è nemmeno quello di una persona che ha intenzione di decifrare l’enigma di una donna complessa e poco decifrabile, lavorando anzi sulle sue zone d’ombra e sulle sue contraddizioni umane e comportamentali e utilizzandole per regalare al suo film la stessa gamma di sfumature e di sfaccettature.
Di Jackie, Larraín abbraccia il mistero, potente e seduttivo, così femminile, così universale: quel mistero che si fa mito, e quel mito che serve alla costruzione delle icone e del potere.
Apparentemente fragile e insicura, perfino nel momento di gloria del White House Tour trasmesso dalla CBS, la Jackie del cileno è capace di durezza e determinazione, che nel film emergono nell’organizzazione e nella gestione dei funerali del marito alla Casa Bianca come nel confronto con un giornalista che la intervista in casa. Ma non per questo, e in entrambe le situazioni, non mostra crepe dalla quale filtra senza vergogna tutto il suo dolore e lo sconcerto per la tragedia che ha subito e alla quale ha assistito da protagonista.
Che si tratti degli arredi della dimora presidenziale, del suo abbigliamento o della necessità di tenere in vita (e, anzi, amplificare) il mito di JFK, Jackie appare come una formidabile spin doctor di sé stessa e del defunto marito, una figura tanto più apparentemente refrattaria quanto più consapevole di fronte ai meccanismi e alle esigenze della comunicazione. E, quindi, del potere.
Jackie, allora, non è solo un proseguimento ideale di Neruda, altra ricognizione biografica che col potere e la politica aveva molto a che fare, ma anche di No – I giorni dell’arcobaleno, reso ancora più efficace dalla personalità della sua protagonista, dai suoi chiaroscuri replicati nella fotografia e nella recitazione, dalla distinzione – a tratti netta, altre sfumata e impercettibile – tra la sua dimensione pubblica e la sua dimensione privata. Dimensioni che, in dei funerali entrati nella storia, sono arrivate a coincidere in maniera dirompente.
In Jackie la questione nodale è appunto quella della rappresentazione, messa in crisi e rilanciata da circostanze straordinarie che hanno portato a sovrapposizioni elettriche e irrisolte tra lo spazio pubblico e lo spazio privato, le cui energie si sono sommate per poi dividersi di nuovo, inevitabilmente contaminate e trasformate: per far sì che il mito esista. Il mito di una presidenza, il mito di una donna, di un matrimonio, di un potere. Di una vita che rimane un mistero.