SMILE 2
Dopo i fatti avvenuti nel primo capitolo di Smile, Kyle ha subito il contagio del demone ed è obbligato a esporre qualcun altro a un trauma violento – omicidio o suicidio – affinché lo spirito si trasferisca in un nuovo vascello. La catena si propaga fino ad arrivare a Skye Riley, popstar di fama mondiale, che assiste al suicidio dell’amico e spacciatore Lewis Fregoli: Skye, ignara del contagio, inizia ad avere allucinazioni traumatiche, che crede di ricollegare al suo passato turbolento di depressione e tossicodipendenza. Mentre la sua situazione personale la porta a imbarazzanti incidenti in eventi pubblici, un infermiere, Morris, la contatta per spiegarle a cosa sta andando incontro e proporle una via di fuga.
Era lecito attendersi un sequel, visto il successo di Smile, tra i migliori tentativi recenti di nuovi franchise horror con un futuro seriale. Ma era difficile immaginare cosa avesse in mente Parker Finn, che scrive e dirige anche questo secondo capitolo, riutilizzando il villain invisibile del primo episodio in una chiave completamente differente.
L’approdo del demone nella mente di una popstar rappresenta la situazione ideale per esaltare il quid di disagio che è già insito di suo nella professione di Skye: la paura che dietro ogni fan si nasconda un maniaco, che qualcosa vada storto in pubblico, o che le luci dei riflettori possano illuminare le cicatrici profonde rimaste sul corpo, a seguito di un grave incidente d’auto – o quelle invisibili, e non meno profonde, della mente.
Un horror immerso nella società dello spettacolo, quindi, che amplifica l’ipocrisia di un mondo sbilanciato tra apparenza e sostanza, in cui il sorriso finto e affettato è la merce di scambio più comune, anche quando contraddice il reale pensiero di chi lo esibisce. Il luogo ideale per il demone del sorriso, che sembra intuire immediatamente le potenzialità di una possessione parassitaria nell’universo pop, per definizione virale nella diffusione dei suoi contenuti. “Smiley”, come viene chiamato comunemente il demone, dà a Skye precisamente quel che il suo egoismo richiede – un’amica sempre presente e disposta a perdonarlo, una via di fuga dall’insostenibile mondo dello spettacolo – per meglio poterla manipolare, fino a un epilogo elaborato e spiazzante, con un twist alla maniera di M. Night Shyamalan (che peraltro ha appena regalato riflessioni sulla collusione tra pop contemporaneo, viralità social e violenza in Trap).
Mentre la Rosemarie DeWitt di Rachel si sposa ritorna nei panni di una madre, che gestisce la carriera di Skye utilizzandola come una macchina che produce profitto, a vestire i panni della cantante è Naomi Scott, performer anche nella vita reale, cresciuta in seno a Disney – era in Aladdin live action – e rimasta perennemente ai margini, mentre assisteva all’ascesa delle varie Selena Gomez e Ariana Grande.