BACK TO BLACK
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“Voglio che la gente senta la mia voce e dimentichi i suoi problemi per cinque minuti. Voglio essere ricordata per la mia voce, per i concerti, per essere stata me stessa”. Così dicono le due uniche voci off di Back to Black, film che sembra voler far pace con i demoni interiori della talentuosissima Amy Winehouse, scomparsa nel 2011 all’età di 27 anni.
Nata e cresciuta a Londra, famiglia di origini ebraiche, genitori divorziati, Amy Jade Winehouse è una giovane donna libera, con un amore spiccato per la musica jazz, sense of humour e gusto per l’imprecazione. Il suo stile rétro è direttamente ispirato all’adorata nonna paterna Cynthia, ex cantante professionista, sua “icona di stile, icona di tutto”. Amy ha voce potente, estensione, groove, è cresciuta ascoltando musica afroamericana. Se non si conoscessero le sue fattezze, potrebbe tranquillamente passare per una cantante black. Corpo da uccellino, tempra da leonessa, firma il suo primo contratto a diciotto anni, con già le idee molto chiare sul concetto di presenza scenica. Nessuno sa tenerle testa e nessun uomo sa starle vicino come lei vorrebbe. Lo dichiara in Stronger Than Me, uno dei brani di Frank, il suo album di debutto che arriva tredicesimo in classifica nel Regno Unito (“non ricordo più la gioia dell’amore giovane / mi sento una signora e tu il mio lady boy”). Tutto cambia quando al “The Good Mixer” di Camden entra Blake Fielder-Civil, tossicomane che la seduce mimando Leader of the Pack delle Shangri-Las. È colpo di fulmine, inizio di una relazione devastante per entrambi.
L’amore, le canzoni. Con un’operazione di zoom chirurgico, Sam Taylor-Johnson e Matt Greenhalgh, già al lavoro sulle biografie di Ian Curtis (Control) e di John Lennon (Nowhere Boy), scelgono di assumere il più possibile il punto di vista della cantante, passando per i suoi sentimenti, le sue dichiarazioni (talvolta inserite in modo un po’ didascalico).
Soprattutto costruiscono la struttura del film attorno ai testi dei suoi brani, diretta emanazione della sua vita. Tagliano fuori l’infanzia, escludono il flashback, mettono subito fuori gioco la madre Janis e l’amica Juliette, pure presenze decorative, fanno solo un rapido accenno ai disturbi alimentari di Amy. Non indagano, se non superficialmente, il ruolo dei discografici sulla sua traiettoria. Per dare spazio, accanto alla coppia Amy/Blake, solo a Cynthia e Mitch, l’unica figura di riferimento solida, e il padre, che è a conoscenza delle dipendenze della figlia ma non sa aiutarla, se non quando è lei a chiederglielo.
Verosimiglianza a parte, e anche se riproduce in diversi punti gli scatti dei paparazzi che hanno alimentato le pagine dei tabloid, Back to Black sembra a tratti volersi distinguere dal precedente Amy, documentario impietoso nel restituire tutti i dettagli scandalistici e la degradazione psicofisica da sostanze, compensandone il vuoto familiare. Si focalizza sulla storia d’amore tra Amy e Blake perché è dell’amore non corrisposto, di quel black vischioso, quel back to us che segue ad ogni fine, che Winehouse ha sempre cantato, conquistando i pubblici di tutto il mondo. Il nero è la radice della sua musica, che non è il pop di plastica (“non sono una cazzo di Spice Girl!”, urla al suo manager Nick).
Winehouse ama il blues, perché è la musica che canta le durezze della vita. Ne conosce la potenza, ne è dipendente, fino a quando qualcos’altro ne sostituisce il potere di attrazione. Lo si percepisce nella sequenza in cui, raggiante, cammina per le strade con in cuffia Dog Wop (That Thing) di Lauryn Hill (“il vero girl power per me è Sarah Vaughan, Dinah Washington, Lauryn Hill”).