LA VITA È UNA DANZA
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Élise è un’étoile, ha ventisei anni, una fede salda nella danza e un fidanzato volubile. Turbata dal tradimento del suo compagno cade in palcoscenico, rovinosamente. Il referto medico è crudele e mette in pausa la sua carriera. Riposo forzato per due anni. Tradita dal suo corpo e da chi ama, è pronta a rinunciare e a seguire un’amica e il suo compagno, cuochi itineranti, in Bretagna. Insieme preparano i pasti per una maison di artisti che ospita per una stagione un coreografo israeliano (Hofesh Shechter!) e la sua compagnia. Tra legamenti e (nuovi) legami, per la ragazza si delinea un nuovo orizzonte. Un nuovo ritmo, elettrico e tribale, ancorato alla terra e al territorio.
I ‘film di danza’ dimenticano sovente di raccontare la passione, l’amore per l’arte o la felicità inaudita che deriva dal controllare un gesto e un corpo che si fa veicolo di emozioni.
Ed è esattamente questa esultanza fisica che magnifica Cédric Klapisch, ponendo lo spettatore in posizione attiva fin dai ‘primi passi’. La vita è una danza, traduzione disneyana del titolo originale e lacaniano (En corps), si apre su una lunga sequenza che avanza tra scena e quinte, senza parole e senza elementi drammatici, solo note che conducono direttamente alla protagonista, giovane étoile impegnata ne La Bayadère. Come se il regista facesse eco alla bellezza pura della disciplina prima di introdurre il suo racconto.