AMERICA LATINA
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Latina: paludi, bonifiche, centrali nucleari dismesse, umidità. Massimo Sisti è il titolare di uno studio dentistico che porta il suo nome. Professionale, gentile, pacato, ha conquistato tutto ciò che poteva desiderare: una villa immersa nella quiete e una famiglia che ama e che lo accompagna nello scorrere dei giorni, dei mesi, degli anni. La moglie Alessandra e le figlie Laura e Ilenia (la prima adolescente, la seconda non ancora) sono la sua ragione di vita, la sua felicità, la ricompensa a un’esistenza improntata all’abnegazione e alla correttezza. È in questa primavera imperturbabile e calma che irrompe l’imprevedibile: un giorno come un altro Massimo scende in cantina e l’assurdo si impossessa della sua vita.
«Abbiamo scelto di raccontare questa storia perché, semplicemente, era quella che ci metteva più in crisi. In crisi come esseri umani, come narratori, come spettatori. Una storia che sollevava in noi domande alle quali non avevamo (e non abbiamo, nemmeno a film ultimato) risposte che non si contraddicessero l’una con l’altra. Interrogarci su noi stessi è la missione più preziosa che il cinema ci permette e America Latina prende alla lettera questa possibilità, raccontando un uomo costretto a rimettere in discussione la propria identità. Essendo gemelli, anche i nostri due film precedenti raccontavano storie di famiglie, di senso di appartenenza, di sangue, ma non ci eravamo mai addentrati così a fondo nel tema e abbiamo scelto la via per noi più rischiosa: la dolcezza. La dolcezza e tutte le sue estreme conseguenze. America Latina è un film sulla luce e abbiamo scelto il punto di vista privilegiato dell’oscurità per osservarla». – Fabio e Damiano D’Innocenzo
«Prospettive ribaltate tra verticale e orizzontale, l’acqua come elemento ritornante, indizi sparsi come i servizi del telegiornale e simmetrie nascoste tra le azioni dei personaggi (il pianoforte, gli interventi sul lettino del dentista, le stringhe di ricerca su google…): i due autori non vogliono giocare con lo spettatore né costruire un impianto che si abbandoni al piacere del meccanismo del mistero, quanto attivare ancora una volta il proprio dispositivo di trattamento punitivo nei confronti di qualunque possibilità di umanità che possa solcare il sopra e il sotto di queste storie.
All’apparenza America Latina può forse sembrare un approdo spiazzante dopo il successo internazionale di Favolacce, votato com’è ad una messinscena minimalista ma perennemente squarciata da una composizione interna del quadro sempre calibratissima e anti-naturalista (e dalle dissonanze della colonna sonora dei Verdena). In realtà si tratta dello scientifico proseguimento del processo di svuotamento attuato dagli autori sugli elementi di una concezione del gesto cinematografico come palette di segni e strutture a cui viene tolta sistematicamente la voce (come accade alla misteriosa “apparizione” in cantina) per lasciar percepire solo un suono puramente astratto come il lamento della prigioniera, un rumore bianco, una frequenza interrotta. Un cinema che, sin dai tempi della triangolazione del finale de La terra dell’abbastanza, si esprime coscientemente come un segnale muto per ribattere al presente».