MARX PUÒ ASPETTARE
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Il 27 dicembre 1968 Camillo Bellocchio, fratello gemello del regista Marco, si è tolto la vita, all’età di 29 anni. Oggi i fratelli superstiti – oltre a Marco ci sono Piergiorgio, Letizia, Alberto e Maria Luisa – ripercorrono quella tragedia insieme ad altri componenti della grande famiglia Bellocchio ricordando la vita e la morte dell'”angelo”: il risultato è una confessione collettiva imbevuta di rimpianto, eppure espressa con feroce e mai sentimentale lucidità. Un modo per il regista di restituire l’immagine di quel fratello che si sentiva invisibile accanto a personalità più forti e più affermate della sua.
Marx può aspettare è un document(ari)o straordinario, sintesi del cinema di Marco Bellocchio e al contempo rivelazione profondamente intima della personalità del regista e di “quel manicomio che era la nostra casa”, dove “ognuno pensava a se stesso”.
Alla fonte, come in ogni opera di Bellocchio, c’è la figura materna ossessionata dalla religione, che il regista ha descritto fin dal suo primo film come cieca di fronte alle individualità dei suoi figli. Agli antipodi c’è la figura di Camilllo, bellissimo e fragile, privo delle capacità intellettuali elevatissime dei fratelli Piergiorgio, fondatore della rivista “Quaderni Piacentini”, e Marco, ma anche dell’ironia e consapevolezza del sindacalista Alberto, o del conforto della fede di Letizia e Maria Luisa.
Simile fisicamente a James Dean anche nella malinconia dello sguardo, o al giovane Lou Castel che ne è stato l’alter ego cinematografico, Camillo era un eterno escluso in una famiglia di personalità autonome. Le foto e i filmati di famiglia ricostruiscono tutta la sua breve vita, e i brani dei film di Marco Bellocchio – I pugni in tasca, ma anche L’ora di religione o Gli occhi, la bocca– lo evocano ripetutamente, anche con quella frase che dà il titolo al documentario, e che Camillo pronunciò quando Marco cercò di conferirgli un’identità attraverso l’impegno politico. Ma riproducono anche le distorsioni di una famiglia complicata in cui la falsificazione era la regola – secondo l’imprinting materno – e in cui il senso di colpa è diventato un rimosso collettivo.
Con quel senso di colpa Marco Bellocchio fa qui i conti, a suo modo e da par suo, mantenendo quel distacco formale e quella ironia espositiva che sono argini evidenti ad un dolore e ad una responsabilità faticosamente riconosciuti, che tuttavia diventano – per noi spettatori – uno tsunami emotivo.