THE ELEPHANT MAN
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Londra, 1884. John Merrick è un’attrazione da circo, che si esibisce sotto il nome di “The Elephant Man” ai servizi del meschino Mr. Bytes: la terribile forma di neurofibromatosi che gli ha deformato il volto lo rende infatti ripugnante alla vista. Un giorno l’ambizioso dottor Frederick Treves assiste allo spettacolo di Bytes e interviene per trasferire John in ospedale ed esporre a un consesso di medici la particolare forma di malattia che lo colpisce. Quando scopre che Merrick non solo è in grado di leggere, ma è un uomo colto, gentile e raffinato, lo trasforma gradualmente in un protagonista della buona società della Londra vittoriana.
Mel Brooks produce un adattamento delle memorie di Frederick Treves e Ashley Montagu sullo strano caso di John Merrick e ne affida la regia al semisconosciuto David Lynch, eccentrico artista statunitense sin lì autore solo del surreale Eraserhead. Sarà la scelta giusta.
Giudicare a distanza di decenni The Elephant Man significa inevitabilmente provare a contestualizzarlo all’interno della carriera del regista di Twin Peaks e scoprire in esso i prodromi di un percorso tra i più singolari e imitati del cinema contemporaneo.
Lynch racchiude la sua natura più evidentemente eccentrica nella cornice: un prologo e un epilogo onirici, che rimandano alla ricerca di una giustificazione cosmica del mistero naturale che contraddistingue il protagonista. Ma se il resto dello svolgimento narrativo è all’apparenza più classico e convenzionale – come Lynch sarà nuovamente solo in Una storia vera – i temi cari all’universo del regista di Missoula sono già fortemente presenti. Come la fiera difesa della diversità e la visione estremamente negativa sulla natura umana, ritratta nella sua ferina empietà; o la riflessione sul destino imperscrutabile e sull’importanza dell’apparenza, in una società che trova nel pregiudizio un passe-partout interpretativo elementare ma efficace.
The Elephant Man tocca punte di rara crudeltà nel ritrarre gli evidenti limiti etici della società dell’uomo. Il ritratto che si delinea è doloroso e quasi insostenibile per lo spettatore, almeno quanto lo era la visione del volto di Merrick per le menti semplici del popolo londinese: per paura o ignoranza, infatti, l’uomo sembra basare le proprie concezioni su un’idea canonizzata di bellezza (o bruttezza), tale che la visione di un caso estremo diviene inevitabile polo di attrazione o repulsione, di fronte al quale tutto si può essere tranne che indifferenti.