UNA STORIA SENZA NOME
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Valeria Tramonti (Ramazzotti) è la timida segretaria del produttore cinematografico Vitelli (Catania), vive ancora a pochi passi dalla madre (Morante) ed è innamorata dello sceneggiatore Pes (Gassmann), per il quale scrive, non accreditata, i soggetti di cui poi lui si prende il merito. A travolgere la sua riservata esistenza è l’incontro con Rak, un anziano sconosciuto (Carpentieri), personaggio misterioso e informatissimo, che le offre una storia irresistibile da trasformare in film, a patto che (anche stavolta) non sia lei a comparirne come autrice. Quella legata al furto della Natività, tela di Caravaggio sottratta dalla mafia nel 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo e mai ritrovata. E che la mafia di oggi non ha nessun interesse a divulgare. Peccato che tra i finanziatori del film ci sia Spatafora (Bruno), affiliato a Cosa nostra.
Andò torna sul tema a lui caro del mascheramento, delle identità molteplici, della verità nascosta sotto la finzione. Parte da un fatto di cronaca a lui vicino (palermitano, classe 1959) che ad un primo livello genera il film scritto da Valeria: un film nel film, diretto dal regista, attore (e pittore) Jerzy Skolimowski (già premio della Giuria con Essential Killing nel 2010 e di nuovo in Concorso alla Mostra nel 2015 con 11 minutes).
Su un altro piano il capolavoro di Caravaggio (sul quale circolano anche le storie dello smembramento in più parti per facilitarne l’espatrio, e quella di essere stato dato in pasto ai maiali) svela, nell’indagine in cui Rak coinvolge Valeria, le tangenze tra criminalità organizzata e politica, tra cene tra “amici” e i palazzi del potere. Il dipinto diventa così l’amara immagine simbolo di un Paese sotto attacco di chi (la mafia) disprezza il valore del proprio patrimonio artistico ma anche della lettura, vista la quantità di scritti, libri, lettori, citazioni che puntellano un film molto scritto, colto, critico, in cui la sceneggiatura, il meccanismo narrativo prevale con evidenza sugli altri elementi di messa in scena, dando vita a tratti a un paradossale effetto di meccanicità.
Molto del piacere di Andò (che firma la sceneggiatura con Angelo Pasquini, in collaborazione con Giacomo Bendotti) invece risiede nel disseminare nel film più segni possibili della passione debordante per il cinema stesso. Non solo con citazioni testuali (da film leggendari sul cinema come Viale del tramonto) o iconiche, come il poster di Il vergine, diretto da Skolimowski nel ’67, che campeggia dietro Valeria nella situazione, anch’essa a suo modo “classica”, del divano del produttore, dalla scritta al neon dei Lumière negli uffici di produzione alle ombre proiettate e ingigantite dalla luce di una lampada a una finestra. Un’opera dedicata al gusto di affidare al dispositivo cinema la possibilità, reinventando la realtà, di divertire e al contempo di investigare sulla verità. Fuori concorso a Venezia 2018