Ritorno al Bosco dei 100 Acri
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Christopher Robin è diventato grande e si è lasciato alle spalle i vecchi compagni di gioco Winnie Pooh e gli abitanti del Bosco dei 100 Acri. Ora vive a Londra con la moglie Evelyn e la figlia Madeline, e lavora nel reparto amministrativo di una ditta che confeziona valigie. Purtroppo la ditta è in crisi, complice la gestione scellerata del figlio del fondatore, e a Christopher viene assegnato il compito di trovare una soluzione entro il fine settimana: l’alternativa è il licenziamento di molti dipendenti. Dunque l’uomo decide di sacrificare il weekend con moglie e figlia nella casa di campagna del Sussex dove ha trascorso la sua infanzia e dove, da una cavità nel tronco di un albero, si accede al Bosco dei 100 Acri. Dal canto suo Winnie Pooh si è svegliato in quel Bosco e non ha trovato nessuno dei suoi amici: Tigro, Pimpi, Ih-Oh, Tappo, Kanga, Ro e Uffa. Per cercarli entra nella cavità dell’albero e sbuca nel giardino londinese antistante l’abitazione di Christopher Robin. Di fatto, però, è Christopher che si è perduto, e toccherà all’orsetto di pezza ricondurlo a casa.
E se in Neverland il protagonista rimaneva bambino e insegnava a una madre di famiglia a conservare il suo spirito infantile, in Ritorno al Bosco dei 100 Acri è Christopher ad aver dimenticato le cose importanti imparate nell’infanzia ed è l’orsetto a ricordargliele. Ma Forster utilizza un’ambientazione retrò e un registro favolistico per affrontare di petto un grande problema della contemporaneità: la schiavitù del lavoro, che toglie tempo e immaginazione a chi è costretto a correre come un criceto sulla ruota, senza accorgersi di ciò che perde lungo la strada.
Come Neverland, Ritorno al Bosco dei 100 Acri contiene una buona misura di realismo magico, e l’immaginazione del regista si sposa con quella delle favole per creare un universo in cui tutto diventa possibile. In questo caso il mix è quello fra animali di pezza, resi realistici da un attento lavoro di grafica computerizzata (Winnie è esattamente l’orsetto che tutti abbiamo avuto, solo parlante), e attori, in una combine che ricorda quella di Paddington ma anche quella di Mary Poppins, il cui obiettivo era salvare Mr. Banks dalla compulsione al superlavoro. In una certa misura il film di Forster è anche companion di Vi presento Christopher Robin di Simon Curtis, che raccontava la dark side di A. A. Milne, veterano di guerra tormentato dai ricordi del fronte e disposto a dare in pasto suo figlio Christopher ai mass media.
Costumi e scenografie sono di prim’ordine, come eccellente è la recitazione di Ewan McGregor nei panni di Christopher Robin. Ma è soprattutto il tono con cui viene raccontata la storia a rimanere fedele alle tavole disegnate da Milne, che appaiono spesso nel film così come le pagine del libro in cui sono contenute.
Ritorno al Bosco dei 100 Acri ben rappresenta la malinconia e la solitudine intrinsechi alla saga di Winnie, e quell’universo britannico fatto di cottage nella brughiera e buona educazione post vittoriana. Forster si sintonizza bene sulla componente oscura delle favole e sulla potenziale dimensione di incubo dei sogni, ma c’è anche la componente dolcemente anarchica dell’orsetto pasticcione che ama non fare nulla e abboffarsi di miele, antitetico all’etica puritana del duro lavoro e delle poche chiacchiere, secondo la quale “i sogni non sono gratis e bisogna lavorare sodo per realizzarli”.
Un’etica cui Christopher Robin è stato forgiato dal college severo e repressivo in cui l’ha mandato suo padre, e dove si appresta a confinare la figlia Madeline. Riuscirà Winnie a fermarlo in tempo e restituire alla sua vita quella dimensione umana che ha perduto? Solo l’orsetto goloso può sperare di farcela, dato che è l’unico che riesce ancora a vedere in quel signore di mezza età stakanovista il piccolo Christopher Robin, antico compagno di avventure. Ed è l’unico in grado di ricordargli che un palloncino rosso vale più di una ventiquattrore zeppa di documenti contabili.
La narrazione resta elementare come quella delle tavole di Milne, ma il messaggio finale è politico: se non si concede ai lavoratori il tempo libero (retribuito) necessario a divertirsi si uccide il mercato dello svago o peggio, lo si riserva solo alle élite, che hanno già il pane, e anche le rose. E se non si riesce a vivere nel presente, costretti a proiettarsi in un domani che non arriva mai (o in un ieri che non si può dimenticare), si getta alle ortiche la propria esistenza. Un messaggio di straordinaria attualità: altro che favola per (eterni) bambini.