Mission: Impossible – Fallout
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Ethan Hunt riceve a Belfast l’ordine di una nuova missione impossibile: recuperare una valigia di plutonio e scovare i cattivissimi che immancabilmente vogliono metterci le mani sopra. Sulle tracce di John Lark, il misterioso finanziatore del rapimento di uno scienziato anarchico ed esperto in armi nucleari, ritrova a Berlino i compagni di sempre: Benji e Luther, a cui salva la pelle compromettendo la missione. E adesso tocca riparare, lanciandosi sul cielo di Parigi per (s)mascherare Lark e incontrare la Vedova Bianca, un’intermediaria sexy e letale. Come a ogni missione, niente andrà come previsto.
Inutile chiedersi se Mission: Impossible – Fallout è meglio o peggio di Rogue Nation o di qualsiasi altro episodio della saga. Rispondere è praticamente impossibile perché ognuno ha le sue ragioni, le sue affinità con le precedenti narrazioni, con quel regista, con quella storia. L’unica replica appurabile è la solidità di una saga, una delle più importanti e apprezzate nel paesaggio delle superproduzioni, che rilancia ancora e ancora. Se il precedente episodio era un fuoco d’artificio, il prossimo sarà sempre una girandola strabiliante. Ogni volta più bello, ogni volta più grande, ogni volta più folle.
Mission: Impossible – Fallout conferma l’assunto e vince la sfida aggiornando quello che era già stato pensato, coreografato, inseguito e visto mille volte. Tutto comincia con un sogno che si converte in incubo e dona il tono (cupo) alla nuova missione. In un angolo di paradiso, Ethan e Julia rinnovano i loro voti sotto lo sguardo di un prete che ha il volto di Solomon Lane, il cattivo schizofrenico di Rogue Nation.
Con l’antagonista di Sean Harris, ritornano pure Rebecca Ferguson e Christopher McQuarrie che firma l’episodio cerniera della saga lanciata nel 1996 e adattata dalle serie culto degli anni Sessanta. La nuova avventura di Ethan Hunt chiude un lungo arco narrativo, cura le ferite simboliche e convoca tutti i capitoli precedenti trovando un equilibrio pirotecnico. La fascinazione del doppio di De Palma, la tensione coreografica e spettacolare di John Woo (la scena di una scalata con la neve al posto della sabbia), i ripiegamenti intimi di J.J. Abrams (il ritorno di Michelle Monaghan, che questa volta è qualcosa di più di un’apparizione), la meccanica del burlesque di Brad Bird (Tom Cruise come Buster Keaton corre a rotta di collo) diventano il carburante per un’avventura apocalittica che dà le vertigini e raggiunge sovente una forma di astrazione quasi poetica.
L’incipit, che non assomiglia a nessun altro della saga, annuncia un capovolgimento. MI6 è una corsa disperata contro la morte e la fine che minaccia di inghiottire l’universo di un eroe infaticabile. La distruzione totale inquadra l’intrigo e scandisce un episodio che non perde tempo a spiegare la missione in una scena espositiva tra le più rapide e funzionali della serie. Nella progressione però la sceneggiatura si impiglia nella sua intricata trama, congestionata da troppe sottotracce che smettiamo presto di (in)seguire per concentrarci sull’intreccio principale e goderci lo spettacolo. Il dinamismo perpetuale di una storia che conosciamo già ma di cui l’epilogo ci sfugge costantemente.
Malgrado fatichi sovente a raccontare quello che vuole raccontare, il sesto episodio introduce apprezzabilmente l’umano nel corso di un’azione sovrumana, ‘infiltrando’ carne e gravità sulla superficie dell’eccitazione digitale. Alla sua seconda volta, l’autore americano ricorda allo spettatore che le acrobazie del suo eroe sono costantemente minacciate dal precipizio del loro fallimento. La meraviglia della performance di Tom Cruise nasce proprio dalla necessità d’improvvisare a partire da uno scacco che dall’adempimento perfetto di una prodezza. Nato sotto il segno dell’Odissea, Rogue Nation si muoveva invece sulle note della Turandot, MI6 è un periplo affollato di antagonisti, composto da avventure singolari e disseminato di crash test, collaudi d’impatto che Cruise insiste ad assolvere personalmente. Perché il corpo maltrattato è il prezzo da pagare a un cinema d’azione totalmente affrancato dalla materia dopo la rivoluzione digitale.
Tra geografie parigine e duelli verticali sul cielo del Kashmir, McQuarrie eplora l’IMAX nella vertigine (il salto sordo col paracadute), nell’immersione (la risoluzione ‘altissima’ che ci accomoda in elicottero accanto a Ethan) e nella profondità del protagonista che fa a pugni con Henry Cavill, superuomo della nuova Hollywood, e pace col suo passato. MI6 assicura una continuità coi capitoli precedenti proponendo una conclusione perfetta che affonda nel cuore diviso in due di Ethan Hunt e nel corpo acrobatico di Tom Cruise, lanciato in una corsa invasata contro i cattivi che vogliono detonare il mondo, contro il tempo che minaccia la sua giovinezza, contro quelli che non si piegano alla sua visione della saga.
Concetto, brand, mitologia del nostro tempo nata trent’anni fa con Coppola (I ragazzi della 56ª strada), l’attore non smette di esercitare il suo potere di attrazione al box-office, prolungando nel nuovo film il precedente secondo una legge di progressione continua. È lui a farci credere ossessivamente a un impossibile diventato routine, a offrirci una rappresentazione costantemente mobile di un agente segreto divenuto metafora del suo stesso mito, a correre nel fuoco di azioni intercambiabili, a lambire il burnout, a praticare l’autoironia sublimando il proprio straripamento, a rivelarsi un’altra volta immortale. Infilando Place de l’Étoile contromano o prendendo velocità sui tetti di Londra.