Lady Bird
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Christine rifiuta il nome che le è stato attribuito, per usarne uno che si è scelto: Lady Bird. Odia Sacramento, dove non succede nulla, e sogna New York. Nella lotta per affermare le proprie scelte la asseconda il padre disoccupato, ma non la madre infermiera, preoccupata per il suo futuro.
Sotto le mentite spoglie del racconto di formazione di area indie, Greta Gerwig, al suo debutto da regista in solitudine, confeziona un’opera generazionale e universale, capace di comunicare al di là delle barriere culturali.
Lady Bird è una ragazza difficile che a Sacramento – il “Midwest della California” – si sente prigioniera. Obbligata a frequentare una scuola cattolica, a coltivare amicizie poco soddisfacenti, a veder sfuggire di fronte a sé la possibilità di partecipare alla verve culturale della lontana East Coast.
Lady Bird sembra prevedere tutti i passaggi narrativi obbligati del coming of age contemporaneo, ma ognuno di questi presenta una particolarità che lo rende irriducibile all’omologazione. Gli stereotipi sono spesso ribaltati e non si avverte mai l’ombra di retorica né di sentimentalismi consolatori. Anziché ricorrere all’aneddotica mumblecore, Gerwig racconta la propria adolescenza con una scarna e schietta prosa carveriana, senza edulcorare nulla, dando solo l’impressione di mantenere gli episodi più divertenti o drammatici. Per fare questo si affida a una interprete sempre più sorprendente, la ventitreenne Saoirse Ronan, un miracolo di duttilità e di trasformismo già osservato nel recente Brooklyn.