Ghost in the Shell
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Il Maggiore è un essere unico nella sua specie, il prototipo di quello che molti potrebbero diventare in futuro, e un’arma potentissima. Recuperato da un terribile incidente, il corpo biologico del Maggiore è stato sostituto con uno interamente artificiale, ma il ghost, cioè l’anima, è rimasta la sua. Da qualche parte, la parte più importante, il Maggiore è ancora umana, anche se (e proprio perché) la sua natura le pone dei dubbi che la tormentano. Li sfrutta Kuze, un misterioso terrorista, che la Section 9, capitanata dal Maggiore e gestita dalla Hanka Robotics ha l’ordine di trovare ed eliminare.
Discutere, o al contrario celebrare, il grado di somiglianza tra “figlio” e “madre”, si tratti della scelta di cast di Scarlett Johansson o del film di Rupert Sanders rispetto al manga di Masamune Shiro, ci sembra un esercizio non fondamentale, che sposta il fuoco altrove rispetto al film in sé, alla sua singolarità o, per restare in tema, alla sua identità.
Come la sua protagonista, Ghost in the shell parrebbe non possedere sulla carta niente di proprio e invece scopre la sua personalità man mano che procede, la va a cercare e se la conquista, proprio come lei, che quando pensa di non avere ormai più nulla di reale, comincia a trasformarsi nel corpo, a livello di immagine, e mostra una schiena che si direbbe vera.
La materia di cui è fatto il film di Sanders è certamente fatta, in parte, anche e molto del precedente di Mamoru Oshii, ma a momenti, rivisitati, rimescolati, come ogni essere è fatto di ripetizioni più o meno consapevoli, e talvolta identiche, delle “espressioni” di chi l’ha creato. E c’è dell’altro. Oshii stesso aveva operato una scelta tra le sottotrame del manga e seguito quella del Burattinaio, mentre quest’ultimo adattamento, tecnologicamente potenziato, fa un percorso diverso, oltre a contemplare una nuova trasformazione. Dopo quella dal disegno all’immagine in movimento, è ora infatti la volta del passaggio dall’animazione al live action, con nuovi innesti digitali ma anche la stessa attenzione alla continuità nella miscela, che preserva innanzitutto l’immaginario cyberpunk e la malinconia della macchina, tema fantascientifico dal fascino eterno.
Nel film di Sanders, il tono lirico della versione animata, quello che le permetteva di mettere al proprio centro una lunga sequenza musicale, disabitata dai protagonisti, non trova spazio: l’action guadagna più importanza, molte sequenze sono tese e sostenute da una colonna più abituale rispetto al genere, e la dinamica narrativa è più classica e “americana”, come lo è la metafora, puntuale, del randagismo, che accomuna i cani di Batou e i ragazzini ribelli scappati di casa. È un approccio diverso, che però non compromette la direttrice tematica di un’umanità da (ri)trovare, né lascia fuori momenti più liberi, come il minuto di gloria di “Beat” Takeshi, quando pronuncia la battuta già destinata alla storia: “Mai mandare un coniglio a uccidere una volpe”, o quello della protagonista di fronte alla lapide, che illumina un’altra accezione del termine “ghost”.
Il finale è in tema con la sostanziale rilettura in chiave supereroistica che il film fa della storia e del personaggio originali. La consapevolezza si configura come una risposta (siamo quello che facciamo), compresa la consapevolezza di genere, e il consenso, per una volta, è un consenso informato